lunedì 17 settembre 2007

Alcune foto




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giovedì 6 settembre 2007

Cronache #4. Dinamiche

Abbandonata la forma esplosa dell'evento precedente, le notti al castello di Malgrate riconquistano la linearità. Una linearità mobile e scossa, in cui è il pubblico a percorrere, guidato, le diverse tappe della serata, a seguirne le trame snodate lungo le stanze del maniero.
Per Dinamiche il ritmo sale e la musica si alza: l'ultimo appuntamento viene introdotto da una moderna Jane Fonda. È Silvia Mercuriali che saltando e ballando presenta la situazione tramite la consueta ripresa video, stropicciando la sintassi con una lingua italiana volutamente tinta di inglese. Abbandonato lo schermo, la presentatrice si incarna tra gli spettatori nella veste di severo arbitro della situazione, e guida il pubblico con un fare che è a metà tra quello dell'allenatore e quello del vigile urbano, ma questa sera non ci sono incroci da sciogliere. Così lo sguardo viene accompagnato in terrazza per incontrare Aline Nari e Paola Lattanzi, i cui movimenti si inseguono e dialogano nello stretto camminamento superiore.
Al pianterreno Anna Rispoli, se nella serata precedente aveva creato la terra, continua in questo alveo con un'altra performance in bilico tra un'epica creatrice e la mitologia del contemporaneo. Sempre avvalendosi di elementi e oggetti di uso comune, la Rispoli mette in forma piccole situazioni su cui puntare l'occhio della camera, e il frame video, proiettato nella finestra della torre, sintetizza e esplicita il risultato delle azioni. Questa volta l'artista crea la luna, e la fa conquistare proprio dagli americani, con tanto di astronauta incapsulato nella tuta e bandierina che garrisce a un inspiegabile vento, inspiegabile almeno nei documenti di quella notte del '69 perché qui è creato ad arte con un piccolo ventilatore.
Dopo la visione di video, uno coreografico di Patrizia Lo Sciuto e un viaggio in Oriente di Stefano Giannotti, oltre all'apparizione di una seminuda Ambra Senatore catapultata al castello da un dimensione spaziotemporale altra in cui lei si stava facendo una doccia, la serata prende mordente con un piccolo esame. Tutti gli astanti sono sottoposti a un giocoso test attitudinale dello spettatore con cui si indaga la comprensione e il grado di familiarità rispetto all'universo della danza contemporanea. Le quattro danzatrici di Rizoma improvvisano, individualmente o in piccoli gruppi, alcune sequenze. Il pubblico ha tre possibilità, solitamente buffe o surreali, ma anche canoniche e di maniera, tra cui scegliere il titolo che ritiene più adatto per ogni proposta. Nella stanza si ride e ci si confronta, si sbircia il foglio del compagno di banco e si chiedono suggerimenti, in una parola si guarda la danza e si gioca esplicitamente con i suoi clichè interpretativi.
Esplosivo anche il gran finale, con la preparazione di un concerto all'interno della torre. Il batterista è un vero special guest, Andrea Giuliani, insieme a Tommaso Checcucci uno dei due insostituibili e infaticabili tecnici senza i quali il festival non sarebbe stato possibile. E tutto nelle regole: pubblico accomodato in platea, soliti movimenti “sul palco” che precedono l'attacco ma, collegato l'ultimo jack, Christophe Mejerhans, chitarra alla mano, chiude la porta del torrione e con essa la vista sui musicisti. Un muro di volumi straripa dalla stanza chiusa, dalle fenditure tra le pietre, dalle fessure incise dal tempo. Il pubblico indossa attonito la sua sorpresa, poi la trasforma in divertita partecipazione, con qualche accenno di ballo.
Per finire, Roberto Castello, con una pistola puntata alla tempia, ringrazia gli artisti per i lodevoli risultati ottenuti nonostante i ritmi improponibili di lavoro a cui sono stati sottoposti. E così, con alcune considerazioni che sarebbe interessante riprendere in altra sede, cala il sipario sul festival.

Cronache #3.Tempi

Un po' ingranaggio di un meccanismo dagli incastri serrati, un po' juke box da cui selezionare le proprie preferenze, la serata Tempi al castello di Malgrate sembra ricalcare, nella sua struttura, la dimensione di perfetta e asfissiante scansione dei ritmi di produzione nella vita industriale. Esattamente 6 minuti e 12 secondi di attività, seguiti da altrettanti di riposo, segnano la misura esatta e puntuale di ogni sezione, calibrano il gesto multiforme della performance e il vuoto assordante dell'attesa. La serata è quindi racchiusa in un procedere dicotomico fatto di pieni e di vuoti, dove il tempo del lavoro è stipato di proposte e quello del riposo vuole assumere le sembianze ludiche delle loisirs. Tra i bicchieri di un bar spuntato nella torre e le chiacchiere, spettatori e artisti possono godere di un tempo finalmente liberato, anche dal lavoro dello spettatore, ma in realtà irrigimentato dalla periodicità della struttura, che ancora richiama l'organizzazione industriale del tempo libero e la conseguente coazione al divertimento, così simile a quella alla produttività. In una scansione rigidamente strutturata tra lavoro e riposo, tra fare e aspettare, gli imperativi si confondono. Anche se camuffato dalla piacevolezza di una notte estiva, il fantasma di un tempo di cui non si è padroni appare più volte. Come nel accade nel mondo, l'attesa è subita, interrompe e sorprende e si dilata nella soggettività di ognuno, mentre la corsa si affanna nel tentativo, appunto, di stare nei Tempi.
Se fin nello scheletro ideativo la serata si mostra foriera di suggestioni, la tessitura degli eventi non smentisce questa impressione, affiancando colori diversi, giustapponendo ironia e raccoglimento, intensità e gioco.
L'incedere ritmico è stata modellato sulla durata di un video realizzato dagli ZimmerFrei, in cui il gruppo polverizza visivamente la trama esplosa di Lost Highways. Piccoli frame proliferano sullo schermo, rifrangendosi in multipli che propongono sequenze del lavoro di Lynch. Gli attraversamenti temporali si moltiplicano e gli occhi possono costruire un percorso privato all'interno della simultaneità degli eventi proposti dalla anomala proiezione.
Con questa traccia ci si affianca al procedere della serata, come un avvertimento, o un'anteprima, della dimensione anche fortemente aleatoria, quasi psicogeografica, che governerà la fruizione dello spettacolo.
Accade allora che i merli del castello si popolino di strani esseri anfibi. Una nuotatrice (Silvia Mercuriali) in crisi di astinenza da acqua, implora gli spettatori per venire bagnata salvo poi tremare vistosamente quando ciò accade, innescando uno strano gioco tra il masochismo finzionale della performer e il pubblico reso carnefice involontario e spesso riluttante. Anna Rispoli intanto, non è per nulla esausta dopo la creazione di piccoli mondi da riprendere con una telecamera: le è sufficiente riposarsi 6 minuti e 12 secondi, senza bisogno di scomodare l'assetto biblico della settimana. Così, indossato uno sgargiante costumino vintage raggiunge la Mercuriali con cui intreccia alcune azioni, incendiano girandole di scintille o diventano paradossali tuffatrici nel vuoto, arrampicate sui cornicioni.
In terrazza una croce di sedie ritaglia lo spazio e disloca la posizione degli spettatori, suggerendo un punto di vista e sfalsando gli orientamenti della visione. Questi assi cartesiani fatti di sguardi disegnano i quadranti di una improvvisazione collettiva, agita contemporaneamente da quattro danzatrici, una per spazio. Il contrasto creato dalla giustapposizione delle differenti personalità permette un vagare continuo tra le situazioni e i riquadri, enfatizzando non semplicemente le qualità e le caratteristiche di ogni performer, bensì il diverso modo di affrontare e trattenere lo sguardo del pubblico, imbrigliandone la frammentata direzionalità. Il paesaggio così creato muta e trascolora tra tonalità seduttive, predatorie, ritrattili, giocose, divertite, interlocutorie, avvinghianti.
Al pianterreno racchiusa in una foresta di aghi, quasi alberi stilizzati e fossili, Aline Nari danza attraversando uno spazio che è a un tempo confinante e accogliente come una gabbia fatta di sogni. La danzatrice sembra abbandonarsi a un sentire privato eppure universale dove convivono dolcezza e rimembranze. Con lo sfiorare delle dita Aline tratteggia situazioni appena accennate, evoca presenze con la piega di un sorriso, le suggerisce con una curva del polso. Su tutto, il sussulto degli aculei di metallo, subito pronto a trasformarsi rimbombo e poi in assordante frastuono, lo stesso rumore che fanno i ricordi quando vengono smossi, lo stesso effetto di una mancanza, o di una nostalgia struggente che disegna radure nei boschi della memoria.
Nel sovrapporsi di effetti e di suoni creato dalla compresenza delle situazioni performative, emergono anche delle bolle pensate per venir esperite in una ipotetica solitudine. È questo ciò che accade nel solo di Paola Lattanzi, a cui molti possono assistere ma che è progettato per un unico spettatore dotato di una traccia audio in cuffia e di una torcia elettrica in mano con cui illuminare i movimenti della danzatrice. Nel suo assolo la Lattanzi ti pianta gli occhi negli occhi e te li ruba con una danza ferina incrinata da improvvisi squarci di un qualcosa che è difficile a dirsi, come se esistesse una forma di resa alla propria umanità che fosse insieme urticante e dolce, potente e fragile. Mentre la Lattanzi arcua e tende allo spasmo i movimenti, con quella violenza sottopelle di cui solo lei è capace, come un qualcosa che pulsa in modo troppo estenuante per essere contenuto nelle sue sole ossa, nelle orecchie incapsulate dalle cuffie una voce bambina sbocconcella parole. E sono parole che declinano il tempo della vita in un rosario di situazioni, ma affastellate l'una accanto all'altra queste graffiano e non lasciano scampo: il tempo di sorridere e il tempo di cantare, il tempo del lutto e il tempo delle lacrime.
L'effetto serra la gola e fa stringere le dita intorno alla torcia. I sei minuti canonici precipitano in un unico gorgo che pare durare un istante. Quando tutto finisce si rimane così, aggrappati a quel cono di luce puntato sulla danzatrice, prigionieri di una domanda a cui non si riesce a dare risposta: l'incantesimo più riuscito in tutto il castello.
Se la situazione creata dalla Lattanzi rapisce in un vortice come un cilone, ci pensa Christophe Meierhans a riportare gli spettatori alla brutalità della realtà condivisa. Il performer interpreta Bill Gates impegnato in una serissima conferenza in inglese, solo che Mejerhans tra una frase e l'altra continua imperterrito a tracannare wodka. La proiezione di spassosissimi sottotitoli, in un italiano sgangherato da traduttore automatico, aggiunge ulteriore sarcasmo all'ideazione della performance, e insieme all'alcool pare fornire una chiave di lettura aberrante, e forse per questo praticabile, per le parole di questo padrone del mondo.

Cronache #2. Spazi

Il portone del castello nella notte estiva si apre per accogliere gli spettatori, o forse per intrappolarli…il percorso è definito, per un pubblico spartito in due gruppi, guidato attraverso proiezioni e giochi di luce, ma costantemente in assenza dell’evento. Gli artisti infatti, hanno rotto le righe. E sono fuori dalle mura.
Il perimetro di pietra si frastaglia, si deforma sotto la pressione dei performer chiamati a interpretare la dimensione dello spazio articolando in collettivo la propria ricerca artistica individuale. Il compromesso, la riflessione intersecata di diverse prospettive sul fare artistico, spostano il disegno oltre il confine del foglio.
Lo spettatore intrappolato in un castello da luna park, spia lo spettacolo da distanze mobili, da altezze vertiginose, da fessure nella pietra.
La chiave della serata è un codice condiviso, una trama di ammiccamenti cinematografici in cui non manca un pizzico di mistero a solleticare un piacevole disorientamento nell’occhio di chi guarda, già invitato a non appoggiarsi alle placide sponde di un palcoscenico, ma a scrutare addirittura l’orizzonte nel buio. Noir, appunto. O meglio, a tratti, un thriller, truce omicidio compreso. Procedendo con ordine, si può quasi intravedere la bozza di una sceneggiatura. Il Castellano in primo piano nello schermo incastonato nella torre invita a non temere, nella sua dimora virata in blu notte, mentre angoli cupi si accendono di lampi verde maligno. Intanto, gettando lo sguardo oltre la terrazza, a picco sul cortile interno, in un enorme primo piano bidimensionale una donna affoga. Il volto di Paola Lattanzi emerge dall’acqua tersa di una vasca da bagno, per poi ricadere all’indietro, in una spasmodica ricerca di ossigeno che sembra essere più vitale sott’acqua, che nel bacio dell’amante omicida. Un istante dopo i fari di un’auto scendono veloci dalla collina, e ai piedi del castello una donna è spinta fuori dall’abitacolo. Una figura nascosta in un impermeabile arancione versa da una tanica un liquido chiaro sul corpo inerme. Poco dopo l’assassino incappucciato si moltiplicherà in tre anonimi officianti di una macabra danza, avvicinandosi all’arco d’accesso al borgo. Nella piazza del castello, l’auto in manovra ingaggerà una schermaglia danzata con Aline Nari. Una donna a lutto trascina la lunga coda nera dell’abito ai piedi della fontana, come fosse una lapide che stilla veleno. Alla fine, ci spara. Ma le merlature del castello deviano le pallottole d’acqua. E siamo salvi. E testimoni. Per fortuna in tutto questo la polizia ha sempre tenuto d’occhio l’auto, possiamo assistere anche all’inseguimento: in un buco nelle mura due automobiline in plastilina immobili nella luce rossa di una notte metropolitana, si inseguono a sirene spiegate. Basta indossare le cuffie per sentirle. L’happy end è forse nella sezione video, una parentesi in una sala separata, che fa a meno del plot: spicca il corto di Anna Rispoli firmato ZimmerFrei, un road movie al confine fra l’infanzia e l’adolescenza, muto e limpido più dell’acqua, spezzato dall’autoradio e da continui abbandoni, tre ragazzi lasciati uno a uno sul ciglio della strada, senza sgomento né spiegazioni. Sola, per l’ultimo tratto guida una ragazzina dallo sguardo azzurro cielo. E nei finestrini il panorama cambia. Un volo aereo, distese di foreste e acque. E lo spazio si deforma e irradia, mentre il tempo è sospeso nel vuoto. Per sempre.

Cronache #1. Forme

Uno dei tratti caratteristici delle serate di Rizoma sta già incluso in questa piccola parola, la prima, suo malgrado costretta a evocare un qualche contenuto al quale contrapporsi, volente o no indotta a riflettere sul senso delle arti performative odierne. Giacchè questa, al di là degli esiti, è sembrata la cifra di intenti di chi ha immaginato le giornate a Malgrate: un piccolo catalogo di principi, di nozioni fondanti, in grado di aprirsi su un fare condiviso e troppo poco messo in comune da molti artisti contemporanei, e in grado di stimolare quattro giornate di incontro con il pubblico.
Dunque la prima forma della serata Forme si apre con una presentatrice con voce suadente (Ambra Senatore), ironica hostess che fornisce coordinate allo spettatore ostentando un gonfio seno che verrà prontamente bucato tramite spilli.
Al suo fianco, un altro palloncino è pronto a cristallizzarsi in forma, immortalando l'atto che lo farà esplodere: una camera digitale cattura qualche divertito spettatore che si presta al gioco volontario di gonfiamento e scoppio improvviso, e la forma svanita è immediatamente consultabile su pc.
Seguendo le scale e le volte del castello, entrando all'interno di stanze o osservando il cortile interno da una balaustra, si creano altre forme. Intorno a un pozzo, una danza melliflua rimarcata da un solo chitarra e voce (Patrizia Lo Sciuto e Stefano Giannotti) si tende verso toni intimistici, in attesa di entrare nell'Acquario : quattro sedie suddividono una stanza in due spazi performativi adiacenti, dove due soli speculari e diversi, (Paola Lattanzi e Patrizia Lo Sciuto) per lo più verticali o minimi spostamenti sul posto circoscritti da luci ovali, ripercorrerono le atmosfere di quella che appare come una odierna cattività delle esistenze. Lo spettatore può osservare da fuori, spiando da ampie vetrate, oppure assidersi nello spazio, divenendo al contempo osservatore e osservato.
Passando dentro a un bagno, che rimanda in audio una trattatistica di corretto movimento per giovani fanciulle, viene da chiedersi quale sia, e se ci sia, una forma madre, un corpo in grado di formare tutta la materia vista al castello. La risposta giunge sul finale, nell'ultima sequenza proposta: alcune danzatrici si offrono come materiale umano da modellare, chiunque può avvicinarsi a loro e “spostarle” e contorcerle come meglio crede, in attesa che l'intervento di altri muti il disegno. Si creano conformazioni bizzarre, in questo nemmeno tanto concettuale esercizio sull'arte delle coreografia: tanto che anche Roberto Castello, sinora silente osservatore di materiali altrui, interviene per creare la sua fugace visione.
Comprendiamo allora che tutto quanto visto poteva forse essere un omaggio alla danza e alla creazione di figure in movimento (forme), e proprio per questo, data la scelta di una serata così marcatamente spettacolare, così offerta in tanti piccoli episodi ognuno reclamante la propria completezza e autoreferenzalità, era forse lecito aspettarsi un registro di aleatorietà meno marcato, mettendo maggiormente a fuoco una Forma in grado di persistere alle singole forme.

mercoledì 8 agosto 2007

IN EQUILIBRIO: performance teatro arte visiva

Rizoma è prima di tutto un momento di condivisione e scambio tra alcune individualità. A ciascuno degli artisti invitati abbiamo chiesto di “autopresentarsi”, e abbiamo sottoposto loro alcune brevi domande. Sono nate una serie di schede, abbastanza diverse fra loro ma crediamo rispondenti alla sensibilità delle figure trattate.


Silvia Mercuriali


E' membro di Rotozaza, una compagnia teatrale sperimentale di
Londra, con la quale ha creato performance, installazioni e altri eventi dal 1999, rappresentati sia in Inghilterra che all'estero. È inoltre un'artista associata di Shunt, collettivo teatrale di Londra e luogo di studio per artisti di diverse discipline (musicisti, performers, artisti di circo ecc) con cui ha creato e rappresentato lo spettacolo “Tropicana” per il National Theatre. Con Rototaza, negli ultimi tre anni, il lavoro si è incentrato su un teatro di comandi e risposte dove gli attori in scena cambiano ogni sera, e si prestano a portare a termine le istruzioni che ricevono essendo all'oscuro di tutto. Si tratta di un lavoro che mostra la bellezza degli individui in scena senza maschere né costumi, togliendo la responsabilità all'attore per metterla totalmente in mano alla scrittura. Rotozaza rappresenta l'umanità nel pieno di un conflitto interiore che si batte tra la voce interna che dice cosa fare e il modo in cui mettiamo in atto i nostri pensieri. In questo modo si avvia una riflessione sul ruolo del pubblico, che si trasforma nel mondo esterno che influenza le nostre scelte nella realtà di ogni giorno: il mondo che ci circonda visto come spettacolo e il pubblico che osserva come personaggio responsabile di cio' che avviene in scena.
In passato ha lavorato con il coreografo Roberto Castello, con Signal to Noise, Expressive Feat Production e il regista cinematografico Woof-Wan-Bau per il cortometraggio “Nose to Mouth” prodotto da Nexus. Di recente ha anche lavorato con il Clod Ensamble in diversi spettacoli e ha collaborato con la produzione Three Monkey Production per la creazione di “The Quarter” all'Atelier 51 Rouen France e con il Puppet Intervention per la conferenza internazionale di Helsinki sulle EU alcohol policies.
Il suo ultimo lavoro si chiama Pinocchio, creato in collaborazione con Gemma Brockis del collettivo teatrale londinese Shunt. Pinocchio è uno spettacolo per tre spettatori che avviene in una macchina in viaggio lungo le strade di diverse città, trasformando la vettura in palcoscenico e il mondo visto dal finestrino in scenografia mutevole. I passeggeri sono coinvolti in prima persona, e trasformati per esempio nei conigli della morte chiamati dalla fatina per domare lo spirito ribelle di Pinocchio, o in spettatori “cinematografici” che osservano dai finestrini le vicende. Dice Silvia: «I passanti diventano personaggi del racconto essi stessi così come i commercianti dei negozi nei quali Pinocchio entra ed esce rimpinzandosi di pop-corn, incontrando casualmente la polizia o chiunque altro si avvicini al veicolo. Emergono così domande nello spettatore..quanto di ciò che si vede e sente è stato preparato in anticipo? Le notizie sulle radio sono vere o no? Non ci sono più certezze e il pubblico è completamente in balia di due sconosciute chiaramente non avvezze alla geografia del posto».
Pinocchio ha debuttato a Londra l'autunno scorso, è approdato a giugno in Sardegna e verrà presentato al Fringe Festival ad Edimburgo tra il 18 e il 25 di Agosto 2007.
A Rizoma, secondo lei, succederà sicuramente qualcosa di entusiasmante e di “strano”.


Anna Rispoli

Opera trasversalmente nel mondo dell'arte, in un bilico creativo tra le arti visive, nel senso più ampio del termine, e il teatro.
Il primo germe di questa ostinata contaminazione di generi nasce durante gli anni dell'università in uno dei laboratori organizzati dal Dams di Bologna. In questa occasione si forma un gruppo di ricerca pura, dalla natura assolutamente sperimentale, dedicato all'esplorazione della performatività intesa nelle sue varie declinazioni. Il portato più significativo dell'esperienza rimane però l'aver innescato incontri e collaborazioni in grado di superare la prova del tempo.
Grazie a questo percorso si sviluppa infatti il rapporto artistico tra la Rispoli e Anna de Manincor, una collaborazione importante che nel 2000 porterà alla nascita di ZimmerFrei, formazione anomala fondata insieme a Massimo Carozzi. Il progetto ZimmerFrei assume le sembianze di un gruppo il cui lavoro collettivo rimane sospeso tra musica, cinema e performance, in un laboratorio permanente in cui le ispirazioni e le pulsioni creative dei tre artisti si contaminano a vicenda.
In una videoinstallazione realizzata con la de Manincor la Rispoli sperimenta per la prima volta l'unione tra la dimensione visiva dell'opera e quella percettiva corporea. Questa ricerca rimarrà poi nelle linee analitiche e di ideazione concettuale dell'artista, e in parte anche nella poetica di ZimmerFrei, anche se l'elemento più immediato riscontrabile nel lavoro del gruppo è l'organizzazione temporale della visione: un modo di trattare la materia che permette di vedere letteralmente il trascorrere del tempo, sia che questo venga declinato come accelerazione che come durata.
L'ultimo progetto realizzato in modo autonomo rispetto a ZimmerFrei è un'installazione sonora in un negozio di impianti audio di Como in cui la Rispoli ricrea una passeggiata virtuale attraverso i suoni della città, registrati tramite field recordings o con interviste agli abitanti. Nella fruizione dell'opera diviene evidente il principio di scelta che ogni spettatore deve applicare per potersi orientare nel mare di rumori e suoni e riuscire a ricavarne una qualche decodifica. In questo modo il singolo fruitore diventa consapevole del meccanismo di proiezione di un immaginario personale che lo porta a ritagliare il continuum audio seguendo il proprio desiderio di sentire qualcosa, confrontandosi anche con l'invadenza delle proprie aspettative riguardo a cosa si crede di ascoltare.
Per Rizoma Anna Rispoli si aspetta di riuscire a relativizzare il suo approccio ponendolo accanto a modalità e percorsi diversi, sia per verificare la necessità di un proprio fare artistico sia con la curiosità di sperimentare gli incontri, situazioni potenzialmente rischiose per via dei mondi inesplorati che possono aprirsi.

venerdì 27 luglio 2007

DANZATRICI

Paola Lattanzi

Si diploma nel 2002 alla Theater School di Amsterdam (Sndo dipartimento di coreografia) e lavora con molte compagnie in Italia e nei Paesi Bassi, tra cui il significativo incontro con Enzo Cosimi nel 2002. Nei suoi lavori c'è una particolare forma di narrazione, quasi dei racconti dove la storia non è intera ma accennata o tracciata, come se vi fosse un rimando a un prima e a un dopo. L'esigenza di lavorare nasce dal desiderio di ritrovare il filo della storia, che si rapporta sempre alla complessità delle cose viste e vissute, frammenti di un'esperienza che ha realmente avuto luogo. Dal 2000 firma le coreografie di alcuni suoi progetti rappresentati in vari paesi in Europa (tra gli altri The Place, London; RomaEuropa, Roma; DWA, Amsterdam). Nel suo ultimo lavoro, still life, che è tuttora un'opera in costruzione, ci sono tre presenze umane rispettivamente di 8, 33 e 60 anni. Si tratta di un esperimento di condivisione di uno spazio e di una relazione, in cui la differenza di età si trasforma in una riflessione sul tempo che muta i gesti.
Rizoma, per lei, sarà prima di tutto una opportunità di scambio, oggi più che mai pregnante dato che le scommesse collettive appaiono sempre più rare.


Patrizia Lo Sciuto

Il “moto armonico” che spinge Patrizia Lo Sciuto nei panorami della danza contemporanea ha origine in Sicilia, ma si è spinto nel tempo oltre i confini nazionali, in una costante sperimentazione di tecniche, intuizioni e ispirazioni. Un percorso scandito da incontri e maestri, da Dominique Dupuy, che forgia la sua percezione spaziale della danza presso l'Istituto Rencontres Internationales de Danse Contemporaine di Parigi alla fine degli anni ’80, a Trisha Brown, che ne orienta l’esperienza coreografica attraversando la Release Technique, o, ancora, la Limon Technique con Josèe Cazeneuve a Parigi. Altri tasselli hanno completato il disegno della formazione di Patrizia Lo Sciuto come interprete e autrice, dalla relazione tra fraseggio e atto trasmessole dal Maestro Alessandro De Santis, all’aspetto energetico del movimento, nello studio del Qi Gong.
Si delineano così i punti cardinali di una ricerca artistica volta a “Rivelare la danza attraverso le rime dei sensi”- secondo le parole della danzatrice. “Nell’arte del movimento la materia corpo sviluppa ed affina i sei sensi, comprendendo quello cinestetico, e la memoria corpo immagazzina dati di uno spazio esteriore ed interiore. La mia ricerca continua è come un tessere una trama in versi danzati dalla quale nasce una coreografia. L’abito coreografico cucito a volte sta stretto a volte sta largo. Accomodare l’abito secondo il punto di percezione è per me un gioco piacevole e misterioso”.
La ricerca sul movimento naturale e lo studio della libera circolazione dell'energia in un corpo affrancato da automatismi muscolari sono la cifra peculiare della Compagnia Moto Armonico, diretta dal 1995 da Patrizia e Betty Lo Sciuto. Malgré tout (1995), fra i primi spettacoli a vederla sia in scena, sia in veste di autrice, è manifesto di una danza che affonda nel corpo il senso e la natura della ricerca formale. “Attraverso il ritmo potente e misterioso della vita, nello spettacolo, la danza-corpo della donna si materializza nella rabbia scattosa al ritmo delle pulsazioni sanguigne, nella drammaticità della consapevolezza della dialettica amore e odio, dolore e gioia, attrazione e repulsione”.
Lo spettacolo Clinamen nel giugno del 2003, ottiene successo di critica e di pubblico al Festival Internazionale della Danza Contemporanea di Remscheid in Germania, e nell’ottobre dello stesso anno Patrizia Lo Sciuto è invitata a danzare a Wuppertal, nel progetto Körpertexte di Bernd Uwe Marszan, danzatore solista di Pina Bausch, come nuovamente nel maggio 2007 nell’installazione di arti visive, danza e musica Stanza di Luce presentata al Festival di danza del Centre Choregraphique National-Ballet Preljocaj di Aix en Provence.
Patrizia Lo Sciuto accetta la sfida di Rizoma, nell’incontro con artisti chiamati a confrontare e coordinare le proprie individualità: “Lascerò fare, accoglierò quello che accadrà, è questa la cosa affascinante. Il risultato sarà la forza dell’incontro di ogni specifica voce. Il gruppo come l’anello di uno spazio possibile”.


Aline Nari

“Per me la danza è ricerca comunicativa attraverso il movimento, quella indagine del sé indirizzata alla propria autenticità che si presta congiuntamente all’ascolto dell’altro” - spiega Aline Nari, nel raccontare la propria poetica di danzautrice. Classe 1970, studi di danza classica, modern jazz e contemporanea, impegnata come ricercatrice della storia della danza, oltre che come danzatrice, coreografa e insegnante, l’artista genovese è profonda conoscitrice delle qualità motorie e comunicative del corpo, in relazione allo spazio e al gruppo. Attenta ai diversi piani di relazione con la propria origine e con l’incognita del fruitore, predilige il gioco con elementi simbolici che tutti riconoscono, senza tuttavia tralasciare le possibili alterazioni di senso che il linguaggio della danza può generare. Nelle sue interpretazioni, la presenza si definisce in quanto unicità organica, espressiva e spirituale, ma non resta quasi mai individuale, diventa invece il tramite per indagare i terreni più o meno familiari: pur non avendo ancora sentito la particolare necessità di lavorare sola, Aline Nari pensa all’assolo come uno spettacolo dentro lo spettacolo. Spiega lei stessa che “la propria dimensione drammaturgica non può rimanere autoreferenziale, ma al contrario dovrebbe rivolgersi continuamente alla ricerca di un dialogo, che però il danzatore solista non sempre riesce ad alimentare”.
Se incontrando la compagnia Sosta Palmizi nel 1997, la danzatrice ha riconosciuto un terreno affine al suo e ha potuto individuare più facilmente la propria dimensione artistica, quando nel 2004 inizia a lavorare con Davide Frangioni, partner nella vita e nel lavoro, l’identificazione dell’immaginario si è ulteriormente potenziata. Questo stesso materiale, assieme a ciò che Aline conserva del proprio percorso artistico, è il bagaglio con cui arriva a Rizoma: “Un’occasione di confronto - come lei stessa auspica - un gioco a carte scoperte in cui mettersi in discussione”.


Ambra Senatore

Ambra Senatore lavora nell'ambito del teatro di danza in Italia e in Francia dal 1997, affiancando esperienze attoriali a quelle di danzatrice contemporanea. Si forma, tra gli altri, con Raffaella Giordano, Giorgio Rossi e Carolyn Carlson.
Come interprete collabora con lo stesso Rossi, Jean Claude Gallotta, con l'Impasto di Michela Lucenti, con Marco Baliani, Georges Lavaudant e con Roberto Castello per la sua compagnia Aldes.
Presto nasce in Ambra la necessità di esplorare la creatività e il movimento in totale autonomia rispetto a guide esterne, partendo dal suo corpo e dalle sue intuizioni. Questo percorso individuale porta nel 2004 a un primo solo: Eda.
Lo spettacolo ha al centro una figura di donna catturata in un quotidiano surreale eppure riconoscibile, tra lavori domestici, solitudini e tentativi di emancipazione.
Nel 2005 la Senatore realizza Merce, descritto dalla coreografa come “uno scherzo moderatamente provocatorio” che esplicita la dimensione del commercio nel mondo artistico. Si tratta infatti di un catalogo di coreografie, già realizzate o ancora in divenire, che Ambra presenta mettendole in vendita, con tanto di prezzo e caratteristiche tecniche. Il sarcasmo flirta quindi con i dati della realtà, in un mercato spettacolare dove ogni proposta è giocoforza trattata come una merce da vendere a operatori affamati di novità.
Con il suo ultimo lavoro, Altro piccolo progetto domestico, torna a proporre una figura femminile in un ambiente casalingo, ovvero una cucina anni Cinquanta in cui la Senatore utilizza, distorcendole, le immagini e gli stereotipi delle réclame dell'epoca. Questo lavoro si pone in una relazione di continuità con Eda, portando in scena una quotidianità domestica che rivela alcune affinità con il primo solo un po' irridendo un po' enfatizzando questa condizione. Che sia sublimazione di un desiderio o affrancamento da una distanza, sembra essere questa la dimensione più fertile della ricerca della coreografa, sempre trattata con ironia e surreale straniamento.
Tra i numerosi incontri della vita, importante per il suo fare artistico è quello con Roberto Castello, rispetto al quale Ambra riconosce un approccio simile alla creatività, fatta anche di sarcasmo e di levità di sguardo.
Per Rizoma ha intenzione di porsi a servizio del gruppo per aprire una dimensione di ascolto e disponibilità verso gli incontri che avverranno, sia rispetto a ciò che le somiglia sia rispetto alle ricerche difformi dalla sua, in attesa di possibili scintille artistiche.

Musicisti

I percorsi di avvicinamento alla dimensione del movimento, alla traiettoria inquieta della danza contemporanea, hanno spesso origine in ambiti artistici attigui, prova evidente della duttilità dell’impulso coreografico rispetto agli stimoli di un approccio sperimentale. A Rizoma due creatori di suoni coinvolti in diversa maniera con il mondo della danza.


Christophe Meierhans

Nel contesto collettivo di Rizoma si inserisce la personalità di Christophe Meierhans, compositore, performer e artista del suono, in un dialogo che esplicita un’attitudine affinata nelle esperienze di ensemble musicale, in un circuito di relazione e modulazione di visioni e intuizioni.
“Il mio approccio alle arti sceniche - ricorda Christophe - ha origine da un’osservazione esterna, per via della mia formazione come compositore. Il ruolo di musicista all’interno di un progetto teatrale mi ha via via avvicinato alla scena, fino a condizionare il mio percorso in una nuova direzione”. Dall'orchestra da camera della radio “Erlandaise Champ D'Action” di Anversa, o dalla “Mendelssohn Hammerorchester” di Lipsia, passando per l'ensemble “Risognanze” di Milano, il passo alla scena è più breve di quanto sembri: Meierhans fonda a Berlino il trio performativo C&H e il duo di design sonoro TAPE THAT, e elabora quindi una propria strategia di orientamento alla performance, che trova ispirazione in P.R.O.J.E.C.T di Xavier Leroy, in cui lo sguardo dello spettatore è rivolto alla performance, ma rediretto nello stesso tempo in un’auto osservazione.
“Essenzialmente non mi sento a mio agio in scena, nella misura in cui questa posizione accentua le mie mancanze più che le mie attitudini come performer, - afferma Christophe. Piuttosto che essere attore, scelgo di restare me stesso. Questo dato di fatto riduce il campo delle possibilità, ma stimola la ricerca di un livello di comunicazione fra il teatro e un circuito di realtà della rappresentazione.” Quest’attitudine alla ricerca ha trovato esito nel lavoro collettivo di C&H, in performance come Postcards from the Future concentrato sulla traduzione in scena di situazioni urbane quotidiane. Un processo di creazione artistica che nel progetto di Rizoma trova una modalità analoga: “Lavorando essenzialmente in contesti collettivi, sono abituato a integrare la mia personalità in un’identità condivisa.”


Stefano Giannotti

Si è diplomato in composizione con Pietro Rigacci ed è stato assistente di Alvin Curran in Crystal Psalms e Tufo Muto. Ha suonato in diversi paesi europei con il "Trio Chitarristico Lucchese" e nel 1997 ha avviato una collaborazione con il coreografo Roberto Castello. Si definisce un “autore” che usa suoni e immagini per creare metafore. Più che al mondo della musica contemporanea, si sente vicino al cinema e alla radio, al teatro e alla canzone d'autore. É partito da Bob Dylan e dai Pink Floyd (da bambino) e attraverso i Genesis e i Van Der Graaf è approdato a Brian Eno, Cage e Alvin Curran. É affascinato e studia le voci e i volti delle persone, i paesaggi, i linguaggi e le lingue, i bambini e i vecchietti, l'universo femminile e gli australopitechi.
Ama Stravinski quasi quanto David Sylvian. Kubrick è il suo artista ideale. Diversi sono stati gli incontri importanti nella sua carriera, fra i quali il Teatro Del Carretto all'età di 18 anni, Alvin Curran (di cui è stato assistente) all'età di 24, sua moglie all'età di 28, Roberto Castello nel 1997. Ma prima ancora, quando il padre lo portò (a 13 anni) a vedere 2001 Odissea nello Spazio al cinema. Infine Le Cirque Imaginaire, un concerto dei Penguin Cafe Orchestra a Perugia, C'era una Volta il West da bambino ecc. Ha presentato le sue opere in numerosi festival, soprattutto esteri, e molti dei suoi lavori sono stati prodotti per e in collaborazione con importanti radio italiane ed estere. Nel 2006 ha realizzato a Taiwan Chiayi Simphony, un film/reportage strutturato in chiave sonora e astratta. Del 2007 è Geologica, del quale lo stesso Giannotti dice: «Ho immaginato una Parigi nel 50050 a.C. popolata da Neanderthals e Homo Sapiens che chiacchierano amabilmente in un bar dell'epoca (distruggono il locale): il cameriere si rivela essere un australopiteco kamikaze che fattosi saltare in aria distrugge tutto e dà inoltre origine al big-bang; l'universo si espande e si ripercorrono le varie ere geologiche con quintali di meteoriti (sternuti e tosse) dinosauri (forbici e spillatrici) e pezzi della torre Eiffel (ferraglia strofinata a terra) che volteggiano nel vuoto cosmico. L'australopiteco è sempre presente nei momenti cruciali (mentre Adamo o Eva mangiano la mela, respinto dall'Arca di Noe, alla capanna di Gesù) e ritorna trasformato in toro ad una corrida nella Siviglia del 50050 a.C.»
Stefano Giannotti ha collaborato con Aldes di Roberto Castello e Alessandra Moretti sia in anni passati che nell'ultima produzione, componendo musiche originali.
Secondo lui, Rizoma potrà essere un momento in cui fare trascendere le discipline di ognuno in qualcosa di collettivo.

mercoledì 25 luglio 2007

RIZOMA 07 Una proliferazione di incontri

I festival estivi di teatro e di danza non sono solo l'occasione per assistere alla messa in scena di spettacoli, ma si trasformano spesso, per gli artisti e per il pubblico, in luoghi di incontro e di scambio di idee.
Proprio pensando alla circolazione delle idee e dei pensieri riguardanti la scena contemporanea è nata, dalla mente e dall'immaginazione di Roberto Castello, RIZOMA 07, un festival molto particolare che si differenzia dal proliferare di rassegne estive sia per l'intento peculiare che lo muove sia per la sua struttura aperta, creata per una fruizione a un tempo ludica e impegnata.
Come per le due edizioni precedenti, RIZOMA 07 sarà ospitato, dal 25 al 28 luglio, nel castello di Malgrate, ma quest'anno la struttura medioevale si trasformerà in una sorta di piazza all'aperto, con tanto di bar e tavolini, dove pubblico e artisti potranno fermarsi a chiacchierare e a osservare le performance sorseggiando qualcosa di fresco. L'intero castello diventerà così a un tempo palcoscenico espanso per degli spettacoli che sceglieranno di volta in volta lo spazio in cui rivelarsi, e luogo di incontro diffuso in cui proseguire le conversazioni sui più svariati argomenti o le analisi dei propri progetti artistici.
Il punto di forza, a livello ideativo, di RIZOMA 07 è proprio il non chiedere agli artisti invitati di presentarsi con uno spettacolo già confezionato, ma di portare un contributo aperto, capace di trasformarsi e contaminarsi grazie agli incontri che avverranno in occasione del festival. Questo perché i 9 artisti convocati al festival, ognuno dei quali opera a vario titolo nel campo della performatività contemporanea – come coreografi e danzatori, musicisti e artisti visivi, performer e compositori – si riuniranno per una intensa settimana organizzata in forma di residenza collettiva, ovvero come un tempo molto speciale da dedicare al proprio lavoro per metterne a fuoco pregi e difetti, punti di forza e efficacia formale, ma soprattutto come tempo da dedicare all'incontro con le diverse pratiche artistiche presenti a Rizoma.
Tutti gli artisti invitati saranno infatti responsabili di progettare le quattro serate del festival, vuoi con creazioni collettive maturate durante la residenza vuoi con riproposizione di temi di ricerca e esiti scenici già sperimentati, ma che questa volta andranno a incontrare gli spazi molto speciali del castello, in un rapporto di influenza palpabile sia rispetto alle suggestioni dei luoghi sia rispetto alle altre proposte artistiche a cui si troveranno affiancati.
Difficile prevedere allora cosa potrà scaturire dall'immaginario di nove persone diverse riunite in un'esperienza assolutamente unica in cui si chiede loro di fare quello che più di ogni altra cosa gli preme, ovvero esercitare la propria creatività in un costante rapporto di scambio col mondo e con l'ambiente che li circonda. Affiancati da uno staff tecnico ma sostenuti più che altro dalla loro capacità ideativa, gli artisti, per una volta resi davvero protagonisti del festival e non semplici nomi da stampare su un cartellone, hanno solo un vincolo nel progettare le quattro serate: attenersi per ogni notte a un tema proposto, tema che Roberto Castello ha estrapolato dagli studi sul movimento di Rudolph von Laban, personaggio seminale ma misconosciuto del mondo della danza. Le quattro serate dovranno quindi indagare rispettivamente le Forme, gli Spazi, i Tempi e le Dinamiche. Concetti fondamentali nell'esperienza di ogni danzatore, ma che grazie alla loro duttilità sono estremamente significativi anche per le altre arti, basta pensare a come nella musica o nell'arte visiva ci si serva di queste stesse parole per parlare della propria materia.
Oltre che a essere accomunati dalla transdisciplinarietà, assunto quasi congenito per chi si voglia occupare di arte al giorno d'oggi, i nove artisti di RIZOMA 07 condividono un altro dato importante, quello di appartenere, se ci si permette una certa elasticità del termine, alla stessa generazione, quella dei più o meno quarantenni. A parte qualche eccezione che abbassa l'età media del gruppo, si tratta quindi di persone che hanno avuto modo di esplorare e formalizzare un loro proprio linguaggio espressivo, un loro modo di stare nel mondo dell'arte, pur differendo tra loro anche in modo sostanziale riguardo alla natura delle proposte sceniche.
Ma sono una generazione emblematica anche per un altro aspetto, più legato allo stato del sistema teatrale italiano e della politica culturale più in generale, di cui questi artisti ne sono in qualche modo il barometro, segnando la drammatica difficoltà di chi vuol fare teatro oggi. Si tratta di una professione che si scopre imprigionata sia da una logica spettacolare che chiede sempre nuove creazioni da consumare, proprio come se fossero merci, sia dall'impossibilità di circuitare e presentare il proprio lavoro di fronte a pubblici diversi, aspetto fondamentale per un'arte, quello del teatro, che vive proprio dell'incontro col mondo.
RIZOMA 07 più che essere una rassegna di danza si presenta quindi come un progetto aperto sulla performatività contemporanea, in cui si metterà alla prova non solo la capacità di autogestione creativa dei protagonisti, ma anche la loro efficacia nel parlare al pubblico, nel mettere in scena non solo e non sempre un risultato dalla confezione accattivante, ma una riflessione intessuta di incontri e parole sui processi, prima che sugli esiti, di chi fa arte oggi.

Contro le pretese di spettacolarità. Castello e Rizoma

Conversazione con Roberto Castello di Lorenzo Donati e Lucia Oliva


Roberto Castello, tra migliori mondi possibili immaginati e cabaret di pensiero sul valore del danaro, trova il tempo di curare la direzione artistica di un festival, “Rizoma”. Per l'edizione del 2007 l'idea è fare convivere nove artisti una decina di giorni, producendo un confronto tra diversi linguaggi e sguardi. Castello lo incontriamo a Santarcangelo, dopo le prime due repliche all'Arboreto de Il duca delle prugne. La discussione procede fluida, realmente desiderosa di divulgare i termini del progetto, sostando sul senso di una rassegna così anomala nel panorama italiano.

Partiamo dall'inizio. Come nasce il progetto di Rizoma?

Rizoma nasce nel 2004, per rispondere a una richiesta di una rassegna di danza nel castello di Malgrate. Si tratta di un posto splendido, un castello medievale restaurato in modo sobrio e asciutto, cosa rara in Italia. L'idea dell'allora direttrice dell'azienda di promozione turistica era quella di fare una rassegna di danza, ma attrezzare il castello con spazi adatti per spettacoli avrebbe prosciugato la quasi totalità delle risorse a disposizione. Dunque, dal momento che anche a livello personale mi trovo da qualche anno in difficoltà con i formati del teatro, come la frontalità della quarta parete, abbiamo deciso di proporre un evento fuori dai formati classici. Spesso, infatti, il mercato impone delle precise regole di visione che vanno poi a spostarsi sulla produzione: lo spettacolo è già pensato per essere un prodotto commerciale, cosa in contraddizione con la realtà del mercato italiano odierno, che praticamente si basa sull'assenza di soldi. Abbiamo quindi pensato di non fare una rassegna, ma di proporre un progetto di ospitalità per alcuni artisti che lavorano nell'ambito della danza. Tutte le categorie professionali possiedono momenti di scambio, in cui le pratiche vengono messe in comune. Per chi lavora nella danza questo non succede, si tratta di mondo molto esclusivo, in cui processi creativi sono circondati da un segreto come se si stesse preservando qualche ricetta misteriosa. Ecco allora il progetto Rizoma, una breve residenza in cui gli artisti sono invitati a condividere uno spazio e a immaginare la gestione delle aperture serali al pubblico. Ovviamente ci sono io che ho effettuato la scelta dei nomi, e cercherò di pormi da stimolatore. L'idea è quella di “vedersi lavorare”, in modo che le relazioni non si coltivino più solo sul piano personale e umano ma anche su quello operativo.
Dal 2004 a oggi sono cambiate alcune cose, ma un dato che mi sembra essersi chiarificato è l'abbandono del formato spettacolo: soprattutto nella danza è sempre più raro trovare spettacoli veri e propri, quello che si vede non sono più opere d'arte “chiuse”, si compra piuttosto la credibilità generale legata al fare artistico dei singoli coreografi, passibile di adattarsi ai contesti più disparati. Si tratta anche di una acquisita libertà mentale, in cui ci si preoccupa meno di modellare spettacoli che incontrino un mercato che tanto non esiste. Rizoma sarà quindi un evento legato alla performatività contemporanea in generale, ci saranno nove artisti invitati a stare insieme otto giorni: tre di studio e preparazione, quattro di apertura al pubblico in cui la richiesta è la totale autogestione. Questo dovrà scaturire da un accordo generale preso previamente, da qui i tre giorni di studio preliminare.

Sappiamo che ogni serata ruoterà attorno a un tema preciso, desunto dall'immaginario teorico di Rudolph Von Laban. Ci spieghi questa scelta?

Il pensiero di Von Laban mi sembra molto interessante, e l'ho preso come pretesto per offrire dei temi di riferimento che orientino i materiali: “forme” il 25/7, “spazi” il 26/7, “tempi” il 27/7, “dinamiche” il 28/7.
Se parliamo di arti visive, per fare un esempio in un altro campo, mi sembra sempre di notare una forte attenzione sull'aspetto concettuale, mentre poca attenzione o consapevolezza sulla forma che viene generata e sull'aspetto “sociologico” dell'opera proposta. Chi fruisce le opere d'arte visiva sembra che debba inserire uno specifico “dischetto” mentale, altrimenti non può accedere. Quello che invece propone Von Laban è una consapevolezza estrema degli elementi costitutivi, che va al di là delle discipline, e che può aiutare a guardare ciò che si fa in modo da capire se esso corrisponda o meno agli intendimenti di partenza. Quella di Laban è una visione analitica dell'evento performativo. Mentre è noto ai più il lavoro di radicali riformatori di altre discipline, come Cage o Duchamp, Laban rimane invece nell'ombra, e mi sembrava giusto porlo al centro della riflessione almeno in questo piccolo evento.

A proposito degli artisti che hai invitato, l'impressione è che si tratti di una generazione più o meno quarantenne con una grande esperienza alle spalle, eppure rimasta in un qualche modo nell'ombra, in molti casi estranea ai circuiti italiani.

Sì, è così. Si tratta di una generazione emblematica, fedele specchio del deserto delle politiche culturali italiane. É come se questi artisti rendessero enormemente evidente il problema del nostro paese, fatto di artisti validi che esistono nei fatti eppure pressoché sconosciuti. I quarantenni sono cresciuti con le stesse aspettative della nostra generazione, ma più passa il tempo e meno è e sarà possibile venire incontro alle loro esigenze. In Italia esiste un patrimonio che stiamo completamente sperperando, semplicemente per il fatto che non viene riconosciuta una minima visibilità. Questo al di là del valore reale delle singole opere. Rizoma, quindi, vuole essere anche un tentativo di riconoscimento orizzontale, fatto anche per loro, per tentare che si cominci a conoscersi e riconoscersi dall'interno.
Voglio poi dire che solo alcuni artisti sono stati invitati perché conoscevo il valore delle singole opere: molti sono a Rizoma perché mi sembra che vi sia una condivisione in merito all'attitudine con la quale affrontiamo le questioni fondamentali del nostro lavoro. Per utilizzare una vecchia terminologia, mi interessava molto di più creare una comunanza sui processi piuttosto che sui prodotti o sugli spettacoli.
Prevedo che l'evento si giocherà su un doppio binario: da una parte una forte tensione autoriale da parte di ognuno, dall'altra una necessaria disponibilità alla complicità, all'intervento in materiali altrui, cosa che richiederà una forte dose di ascolto. D'altronde, se dovessi rintracciare un dato comune di questa generazione, direi che è definitivamente scomparsa la tensione a primeggiare, a essere artisti romantici. Il concetto di artista come primadonna e come autore “forte” è forse del tutto tramontato.

Spostiamo la discussione sul pubblico. In tempi di consumi culturali obbligati e di pretese di spettacolarità, non pensi che un evento come Rizoma possa risultare frainteso o troppo “aleatorio”?

Non lo escludo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare! Torniamo sulla questione fondamentale alla quale accennavo prima: trovo assolutamente inutile, al giorno d'oggi, costringere gli artisti a mettere insieme dei prodotti, dal momento che non esiste un mercato che li possa accogliere. Questa è l'unica logica ammessa: lo spettacolo deve rispettare certi parametri di formato, di costi, di codici. Fin qui andrebbe anche bene, se fosse una scelta che ogni artista viene messo nelle condizioni di fare. Il problema è che questa scelta oggi non è possibile, poiché non esistono dei contesti che lavorino in tale direzione, tranne qualche esempio sporadico. Rizoma dunque è anche questo, un luogo in cui viene permesso all'artista di essere libero e mentalmente sgombro. Come direttore artistico devo mettere l'artista nelle condizioni di essere apprezzato senza preconcetti. A Rizoma c'è sempre stato un pubblico attento, anche al di là della mie aspettative, dallo spettatore che viene appositamente da Milano all'abitante del luogo. Il mio obiettivo è tentare di abbassare le aspettative di spettacolarità di chi viene ad assistere alle giornate di Rizoma. L'idea è di predisporre una situazione da tavolino da bar, in cui chi viene prima di tutto “sta” e “incontra” delle proposte performative, senza aspettarsi nulla di preciso, solo curioso di vedere che succede. E questa non è trasgressione, ma una modalità che sto indagando anche nei miei lavori, una modalità che anche come direttore artistico vorrei approfondire.

Prima abbiamo parlato della generazione dei quarantenni. In questa fase sembra avere una certa visibilità il cosiddetto “teatro emergente”, diciamo la generazione dei trentenni. Dal proliferare di bandi alla piccola eppure presente circuitazione in alcuni festival e rassegne, sembra che sia un periodo in cui qualche segnale giunge. Tu cosa ne pensi?

Qualche segnale c'è, è vero, ma la mia sensazione è che si tratti di spettacoli che girano perché sono gli unici che si possono comprare per meno di 500 euro. In questo non c'è la minima traccia di un giudizio qualitativo sui lavori, ci tengo a sottolinearlo. Il problema è che questi “giovani” non prenderanno mai 1000 euro, e che per 500 euro ci sarebbe spazio anche per i quarantenni, ma molti si rifiutano. Quando questi trentenni cresceranno cosa succederà? É il solito nodo della politica culturale italiana. Un'altra questione è la nascita di formati brevi, da venti minuti. Si comprano così tre lavori per una stessa sera, rischiando poco e con una minima spesa. Si tratta di adattamenti a un mercato sempre più impositivo. I programmatori hanno non poche responsabilità: invece di difendere e proteggere l'artista di fronte alle istituzioni, finiscono per rendere possibile l'adeguamento generale a condizioni inaccettabili. Se ci sono pochi soldi, anziché diminuire le proposte, si va in cerca di qualcuno disposto ad accettare condizioni sempre peggiori. In questo gli artisti sono sempre tra due fuochi, da un lato scontenti per come si viene trattati e dall'altro costretti ad attaccarsi alle poche occasioni di visibilità. Se non le accetti, perché le trovi poco etiche e insostenibili, sei semplicemente oscurato, non ci sono alternative. Basta pensare che Aldes chiede lo stesso cachet dal 2004, e di continuo chi ci compra continua a chiederci di abbassare le richieste. Si tratta di un problema politico, anche per i gruppi. Spesso la si prende come una questione personale, si vanno a confrontare le pratiche altrui lamentandosi per certi atteggiamenti. Invece proprio questo potrebbe essere il terreno di un confronto tra artisti realmente politico, che tenti di evitare gli stessi errori che noi stessi abbiamo fatto.