mercoledì 25 luglio 2007

Contro le pretese di spettacolarità. Castello e Rizoma

Conversazione con Roberto Castello di Lorenzo Donati e Lucia Oliva


Roberto Castello, tra migliori mondi possibili immaginati e cabaret di pensiero sul valore del danaro, trova il tempo di curare la direzione artistica di un festival, “Rizoma”. Per l'edizione del 2007 l'idea è fare convivere nove artisti una decina di giorni, producendo un confronto tra diversi linguaggi e sguardi. Castello lo incontriamo a Santarcangelo, dopo le prime due repliche all'Arboreto de Il duca delle prugne. La discussione procede fluida, realmente desiderosa di divulgare i termini del progetto, sostando sul senso di una rassegna così anomala nel panorama italiano.

Partiamo dall'inizio. Come nasce il progetto di Rizoma?

Rizoma nasce nel 2004, per rispondere a una richiesta di una rassegna di danza nel castello di Malgrate. Si tratta di un posto splendido, un castello medievale restaurato in modo sobrio e asciutto, cosa rara in Italia. L'idea dell'allora direttrice dell'azienda di promozione turistica era quella di fare una rassegna di danza, ma attrezzare il castello con spazi adatti per spettacoli avrebbe prosciugato la quasi totalità delle risorse a disposizione. Dunque, dal momento che anche a livello personale mi trovo da qualche anno in difficoltà con i formati del teatro, come la frontalità della quarta parete, abbiamo deciso di proporre un evento fuori dai formati classici. Spesso, infatti, il mercato impone delle precise regole di visione che vanno poi a spostarsi sulla produzione: lo spettacolo è già pensato per essere un prodotto commerciale, cosa in contraddizione con la realtà del mercato italiano odierno, che praticamente si basa sull'assenza di soldi. Abbiamo quindi pensato di non fare una rassegna, ma di proporre un progetto di ospitalità per alcuni artisti che lavorano nell'ambito della danza. Tutte le categorie professionali possiedono momenti di scambio, in cui le pratiche vengono messe in comune. Per chi lavora nella danza questo non succede, si tratta di mondo molto esclusivo, in cui processi creativi sono circondati da un segreto come se si stesse preservando qualche ricetta misteriosa. Ecco allora il progetto Rizoma, una breve residenza in cui gli artisti sono invitati a condividere uno spazio e a immaginare la gestione delle aperture serali al pubblico. Ovviamente ci sono io che ho effettuato la scelta dei nomi, e cercherò di pormi da stimolatore. L'idea è quella di “vedersi lavorare”, in modo che le relazioni non si coltivino più solo sul piano personale e umano ma anche su quello operativo.
Dal 2004 a oggi sono cambiate alcune cose, ma un dato che mi sembra essersi chiarificato è l'abbandono del formato spettacolo: soprattutto nella danza è sempre più raro trovare spettacoli veri e propri, quello che si vede non sono più opere d'arte “chiuse”, si compra piuttosto la credibilità generale legata al fare artistico dei singoli coreografi, passibile di adattarsi ai contesti più disparati. Si tratta anche di una acquisita libertà mentale, in cui ci si preoccupa meno di modellare spettacoli che incontrino un mercato che tanto non esiste. Rizoma sarà quindi un evento legato alla performatività contemporanea in generale, ci saranno nove artisti invitati a stare insieme otto giorni: tre di studio e preparazione, quattro di apertura al pubblico in cui la richiesta è la totale autogestione. Questo dovrà scaturire da un accordo generale preso previamente, da qui i tre giorni di studio preliminare.

Sappiamo che ogni serata ruoterà attorno a un tema preciso, desunto dall'immaginario teorico di Rudolph Von Laban. Ci spieghi questa scelta?

Il pensiero di Von Laban mi sembra molto interessante, e l'ho preso come pretesto per offrire dei temi di riferimento che orientino i materiali: “forme” il 25/7, “spazi” il 26/7, “tempi” il 27/7, “dinamiche” il 28/7.
Se parliamo di arti visive, per fare un esempio in un altro campo, mi sembra sempre di notare una forte attenzione sull'aspetto concettuale, mentre poca attenzione o consapevolezza sulla forma che viene generata e sull'aspetto “sociologico” dell'opera proposta. Chi fruisce le opere d'arte visiva sembra che debba inserire uno specifico “dischetto” mentale, altrimenti non può accedere. Quello che invece propone Von Laban è una consapevolezza estrema degli elementi costitutivi, che va al di là delle discipline, e che può aiutare a guardare ciò che si fa in modo da capire se esso corrisponda o meno agli intendimenti di partenza. Quella di Laban è una visione analitica dell'evento performativo. Mentre è noto ai più il lavoro di radicali riformatori di altre discipline, come Cage o Duchamp, Laban rimane invece nell'ombra, e mi sembrava giusto porlo al centro della riflessione almeno in questo piccolo evento.

A proposito degli artisti che hai invitato, l'impressione è che si tratti di una generazione più o meno quarantenne con una grande esperienza alle spalle, eppure rimasta in un qualche modo nell'ombra, in molti casi estranea ai circuiti italiani.

Sì, è così. Si tratta di una generazione emblematica, fedele specchio del deserto delle politiche culturali italiane. É come se questi artisti rendessero enormemente evidente il problema del nostro paese, fatto di artisti validi che esistono nei fatti eppure pressoché sconosciuti. I quarantenni sono cresciuti con le stesse aspettative della nostra generazione, ma più passa il tempo e meno è e sarà possibile venire incontro alle loro esigenze. In Italia esiste un patrimonio che stiamo completamente sperperando, semplicemente per il fatto che non viene riconosciuta una minima visibilità. Questo al di là del valore reale delle singole opere. Rizoma, quindi, vuole essere anche un tentativo di riconoscimento orizzontale, fatto anche per loro, per tentare che si cominci a conoscersi e riconoscersi dall'interno.
Voglio poi dire che solo alcuni artisti sono stati invitati perché conoscevo il valore delle singole opere: molti sono a Rizoma perché mi sembra che vi sia una condivisione in merito all'attitudine con la quale affrontiamo le questioni fondamentali del nostro lavoro. Per utilizzare una vecchia terminologia, mi interessava molto di più creare una comunanza sui processi piuttosto che sui prodotti o sugli spettacoli.
Prevedo che l'evento si giocherà su un doppio binario: da una parte una forte tensione autoriale da parte di ognuno, dall'altra una necessaria disponibilità alla complicità, all'intervento in materiali altrui, cosa che richiederà una forte dose di ascolto. D'altronde, se dovessi rintracciare un dato comune di questa generazione, direi che è definitivamente scomparsa la tensione a primeggiare, a essere artisti romantici. Il concetto di artista come primadonna e come autore “forte” è forse del tutto tramontato.

Spostiamo la discussione sul pubblico. In tempi di consumi culturali obbligati e di pretese di spettacolarità, non pensi che un evento come Rizoma possa risultare frainteso o troppo “aleatorio”?

Non lo escludo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare! Torniamo sulla questione fondamentale alla quale accennavo prima: trovo assolutamente inutile, al giorno d'oggi, costringere gli artisti a mettere insieme dei prodotti, dal momento che non esiste un mercato che li possa accogliere. Questa è l'unica logica ammessa: lo spettacolo deve rispettare certi parametri di formato, di costi, di codici. Fin qui andrebbe anche bene, se fosse una scelta che ogni artista viene messo nelle condizioni di fare. Il problema è che questa scelta oggi non è possibile, poiché non esistono dei contesti che lavorino in tale direzione, tranne qualche esempio sporadico. Rizoma dunque è anche questo, un luogo in cui viene permesso all'artista di essere libero e mentalmente sgombro. Come direttore artistico devo mettere l'artista nelle condizioni di essere apprezzato senza preconcetti. A Rizoma c'è sempre stato un pubblico attento, anche al di là della mie aspettative, dallo spettatore che viene appositamente da Milano all'abitante del luogo. Il mio obiettivo è tentare di abbassare le aspettative di spettacolarità di chi viene ad assistere alle giornate di Rizoma. L'idea è di predisporre una situazione da tavolino da bar, in cui chi viene prima di tutto “sta” e “incontra” delle proposte performative, senza aspettarsi nulla di preciso, solo curioso di vedere che succede. E questa non è trasgressione, ma una modalità che sto indagando anche nei miei lavori, una modalità che anche come direttore artistico vorrei approfondire.

Prima abbiamo parlato della generazione dei quarantenni. In questa fase sembra avere una certa visibilità il cosiddetto “teatro emergente”, diciamo la generazione dei trentenni. Dal proliferare di bandi alla piccola eppure presente circuitazione in alcuni festival e rassegne, sembra che sia un periodo in cui qualche segnale giunge. Tu cosa ne pensi?

Qualche segnale c'è, è vero, ma la mia sensazione è che si tratti di spettacoli che girano perché sono gli unici che si possono comprare per meno di 500 euro. In questo non c'è la minima traccia di un giudizio qualitativo sui lavori, ci tengo a sottolinearlo. Il problema è che questi “giovani” non prenderanno mai 1000 euro, e che per 500 euro ci sarebbe spazio anche per i quarantenni, ma molti si rifiutano. Quando questi trentenni cresceranno cosa succederà? É il solito nodo della politica culturale italiana. Un'altra questione è la nascita di formati brevi, da venti minuti. Si comprano così tre lavori per una stessa sera, rischiando poco e con una minima spesa. Si tratta di adattamenti a un mercato sempre più impositivo. I programmatori hanno non poche responsabilità: invece di difendere e proteggere l'artista di fronte alle istituzioni, finiscono per rendere possibile l'adeguamento generale a condizioni inaccettabili. Se ci sono pochi soldi, anziché diminuire le proposte, si va in cerca di qualcuno disposto ad accettare condizioni sempre peggiori. In questo gli artisti sono sempre tra due fuochi, da un lato scontenti per come si viene trattati e dall'altro costretti ad attaccarsi alle poche occasioni di visibilità. Se non le accetti, perché le trovi poco etiche e insostenibili, sei semplicemente oscurato, non ci sono alternative. Basta pensare che Aldes chiede lo stesso cachet dal 2004, e di continuo chi ci compra continua a chiederci di abbassare le richieste. Si tratta di un problema politico, anche per i gruppi. Spesso la si prende come una questione personale, si vanno a confrontare le pratiche altrui lamentandosi per certi atteggiamenti. Invece proprio questo potrebbe essere il terreno di un confronto tra artisti realmente politico, che tenti di evitare gli stessi errori che noi stessi abbiamo fatto.

1 commento:

alfawalidou ha detto...

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