giovedì 6 settembre 2007

Cronache #3.Tempi

Un po' ingranaggio di un meccanismo dagli incastri serrati, un po' juke box da cui selezionare le proprie preferenze, la serata Tempi al castello di Malgrate sembra ricalcare, nella sua struttura, la dimensione di perfetta e asfissiante scansione dei ritmi di produzione nella vita industriale. Esattamente 6 minuti e 12 secondi di attività, seguiti da altrettanti di riposo, segnano la misura esatta e puntuale di ogni sezione, calibrano il gesto multiforme della performance e il vuoto assordante dell'attesa. La serata è quindi racchiusa in un procedere dicotomico fatto di pieni e di vuoti, dove il tempo del lavoro è stipato di proposte e quello del riposo vuole assumere le sembianze ludiche delle loisirs. Tra i bicchieri di un bar spuntato nella torre e le chiacchiere, spettatori e artisti possono godere di un tempo finalmente liberato, anche dal lavoro dello spettatore, ma in realtà irrigimentato dalla periodicità della struttura, che ancora richiama l'organizzazione industriale del tempo libero e la conseguente coazione al divertimento, così simile a quella alla produttività. In una scansione rigidamente strutturata tra lavoro e riposo, tra fare e aspettare, gli imperativi si confondono. Anche se camuffato dalla piacevolezza di una notte estiva, il fantasma di un tempo di cui non si è padroni appare più volte. Come nel accade nel mondo, l'attesa è subita, interrompe e sorprende e si dilata nella soggettività di ognuno, mentre la corsa si affanna nel tentativo, appunto, di stare nei Tempi.
Se fin nello scheletro ideativo la serata si mostra foriera di suggestioni, la tessitura degli eventi non smentisce questa impressione, affiancando colori diversi, giustapponendo ironia e raccoglimento, intensità e gioco.
L'incedere ritmico è stata modellato sulla durata di un video realizzato dagli ZimmerFrei, in cui il gruppo polverizza visivamente la trama esplosa di Lost Highways. Piccoli frame proliferano sullo schermo, rifrangendosi in multipli che propongono sequenze del lavoro di Lynch. Gli attraversamenti temporali si moltiplicano e gli occhi possono costruire un percorso privato all'interno della simultaneità degli eventi proposti dalla anomala proiezione.
Con questa traccia ci si affianca al procedere della serata, come un avvertimento, o un'anteprima, della dimensione anche fortemente aleatoria, quasi psicogeografica, che governerà la fruizione dello spettacolo.
Accade allora che i merli del castello si popolino di strani esseri anfibi. Una nuotatrice (Silvia Mercuriali) in crisi di astinenza da acqua, implora gli spettatori per venire bagnata salvo poi tremare vistosamente quando ciò accade, innescando uno strano gioco tra il masochismo finzionale della performer e il pubblico reso carnefice involontario e spesso riluttante. Anna Rispoli intanto, non è per nulla esausta dopo la creazione di piccoli mondi da riprendere con una telecamera: le è sufficiente riposarsi 6 minuti e 12 secondi, senza bisogno di scomodare l'assetto biblico della settimana. Così, indossato uno sgargiante costumino vintage raggiunge la Mercuriali con cui intreccia alcune azioni, incendiano girandole di scintille o diventano paradossali tuffatrici nel vuoto, arrampicate sui cornicioni.
In terrazza una croce di sedie ritaglia lo spazio e disloca la posizione degli spettatori, suggerendo un punto di vista e sfalsando gli orientamenti della visione. Questi assi cartesiani fatti di sguardi disegnano i quadranti di una improvvisazione collettiva, agita contemporaneamente da quattro danzatrici, una per spazio. Il contrasto creato dalla giustapposizione delle differenti personalità permette un vagare continuo tra le situazioni e i riquadri, enfatizzando non semplicemente le qualità e le caratteristiche di ogni performer, bensì il diverso modo di affrontare e trattenere lo sguardo del pubblico, imbrigliandone la frammentata direzionalità. Il paesaggio così creato muta e trascolora tra tonalità seduttive, predatorie, ritrattili, giocose, divertite, interlocutorie, avvinghianti.
Al pianterreno racchiusa in una foresta di aghi, quasi alberi stilizzati e fossili, Aline Nari danza attraversando uno spazio che è a un tempo confinante e accogliente come una gabbia fatta di sogni. La danzatrice sembra abbandonarsi a un sentire privato eppure universale dove convivono dolcezza e rimembranze. Con lo sfiorare delle dita Aline tratteggia situazioni appena accennate, evoca presenze con la piega di un sorriso, le suggerisce con una curva del polso. Su tutto, il sussulto degli aculei di metallo, subito pronto a trasformarsi rimbombo e poi in assordante frastuono, lo stesso rumore che fanno i ricordi quando vengono smossi, lo stesso effetto di una mancanza, o di una nostalgia struggente che disegna radure nei boschi della memoria.
Nel sovrapporsi di effetti e di suoni creato dalla compresenza delle situazioni performative, emergono anche delle bolle pensate per venir esperite in una ipotetica solitudine. È questo ciò che accade nel solo di Paola Lattanzi, a cui molti possono assistere ma che è progettato per un unico spettatore dotato di una traccia audio in cuffia e di una torcia elettrica in mano con cui illuminare i movimenti della danzatrice. Nel suo assolo la Lattanzi ti pianta gli occhi negli occhi e te li ruba con una danza ferina incrinata da improvvisi squarci di un qualcosa che è difficile a dirsi, come se esistesse una forma di resa alla propria umanità che fosse insieme urticante e dolce, potente e fragile. Mentre la Lattanzi arcua e tende allo spasmo i movimenti, con quella violenza sottopelle di cui solo lei è capace, come un qualcosa che pulsa in modo troppo estenuante per essere contenuto nelle sue sole ossa, nelle orecchie incapsulate dalle cuffie una voce bambina sbocconcella parole. E sono parole che declinano il tempo della vita in un rosario di situazioni, ma affastellate l'una accanto all'altra queste graffiano e non lasciano scampo: il tempo di sorridere e il tempo di cantare, il tempo del lutto e il tempo delle lacrime.
L'effetto serra la gola e fa stringere le dita intorno alla torcia. I sei minuti canonici precipitano in un unico gorgo che pare durare un istante. Quando tutto finisce si rimane così, aggrappati a quel cono di luce puntato sulla danzatrice, prigionieri di una domanda a cui non si riesce a dare risposta: l'incantesimo più riuscito in tutto il castello.
Se la situazione creata dalla Lattanzi rapisce in un vortice come un cilone, ci pensa Christophe Meierhans a riportare gli spettatori alla brutalità della realtà condivisa. Il performer interpreta Bill Gates impegnato in una serissima conferenza in inglese, solo che Mejerhans tra una frase e l'altra continua imperterrito a tracannare wodka. La proiezione di spassosissimi sottotitoli, in un italiano sgangherato da traduttore automatico, aggiunge ulteriore sarcasmo all'ideazione della performance, e insieme all'alcool pare fornire una chiave di lettura aberrante, e forse per questo praticabile, per le parole di questo padrone del mondo.

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